Deumanizzazione: la perdita dell'empatia

giugno 29, 2025

Deumanizzazione - tempodellessere

Come facciamo a trasformare un essere umano in “altro”? In qualcosa che, ai nostri occhi, non merita più empatia, diritti o nemmeno ascolto? 

In psicologia sociale esiste un termine preciso – e inquietante – per descrivere questo processo interiore: deumanizzazione.  

La deumanizzazione è un meccanismo psicologico e culturale che spoglia l’altro della sua umanità, trasformandolo in un oggetto, in un ingranaggio impersonale o – peggio – in un simbolo del male. Quando questo accade, perdiamo gradualmente empatia e compassione verso interi gruppi umani, al punto da giustificare, o anche solo tollerare, violenze e distruzioni che un tempo ci sarebbero sembrate impensabili.

È un processo antico quanto l’umanità stessa. Ha accompagnato guerre, persecuzioni e genocidi. Ma non è ineluttabile: riconoscerlo, diventare consapevoli dei suoi meccanismi perversi è il primo passo per contrastarlo.

Oggi, mentre sotto i nostri occhi si consumano nuovi crimini contro l’umanità, i social media amplificano linguaggi d’odio e narrazioni disumanizzanti. E mentre la parola “guerra” torna a circolare con inquietante normalità, senza essere mai diventata un tabù collettivo, comprendere questo fenomeno – nelle sue radici psicologiche e culturali – diventa fondamentale.


Che cos’è la deumanizzazione secondo la psicologia sociale

Deumanizzare significa, in senso letterale, togliere l’umanità. Ma cosa intendiamo davvero con “umanità”? Non si tratta solo di caratteristiche biologiche, ma di tutto ciò che attribuiamo al concetto di “persona”: emozioni, intenzioni, sofferenza, dignità. La deumanizzazione è un processo attraverso cui smettiamo di riconoscere questi tratti nell’altro. Non è sempre violenta, non è sempre consapevole, ma è sempre pericolosa.

Secondo la psicologia sociale, questo processo può assumere forme diverse. Lo studioso Nick Haslam ha identificato due modalità principali:

  • La deumanizzazione animalistica, che associa l’altro a un essere inferiore, istintivo, privo di razionalità. È il tipo di narrazione che storicamente è stata usata per giustificare il colonialismo, la schiavitù, o certi razzismi che riducono l’altro a “selvaggio”, “primitivo”, “incivile”.

  • La deumanizzazione meccanicistica, invece, priva l’altro delle emozioni, del calore umano. L’altro diventa freddo, funzionale, come una macchina. È una forma più sottile, spesso presente nel linguaggio burocratico o medico, ma che può emergere anche nella vita quotidiana, nei rapporti professionali o online.

In entrambi i casi, l’altro da me viene svuotato delle sue caratteristiche umane. Non sente, non soffre, non pensa come me. E se non sente, non soffre, allora posso ignorarlo, eliminarlo, ridurlo a problema. Così si costruisce il terreno su cui fiorisce l’indifferenza. E, nei casi più estremi, l’odio.

La cosa più inquietante è che tutto questo non nasce sempre da cattiveria o malvagità. Spesso nasce da paura, da semplificazione, da un bisogno di protezione. Siamo portati a dividere il mondo in categorie, in “noi” e “loro”, come meccanismo evolutivo. È una scorciatoia mentale che, però, se non ne siamo consapevoli, può diventare la porta d’ingresso per le forme più devastanti di esclusione.


Perché deumanizziamo? Meccanismi mentali, emozioni e società

La deumanizzazione non è un fenomeno riservato agli estremisti, né il frutto di una malvagità fuori dal comune. Al contrario, nasce spesso dentro persone “normali”, in condizioni sociali, psicologiche e culturali ben precise. È lì che affonda le sue radici: nei meccanismi della mente umana, nei traumi collettivi, nel bisogno di semplificare un mondo complesso, nel desiderio profondo di appartenere.
In termini psicologici, uno dei motori principali è la divisione in gruppi: noi contro loro. È una strategia ancestrale, legata alla sopravvivenza. Tendiamo a favorire chi percepiamo come simile a noi (l’ingroup) e a diffidare o svalutare chi sentiamo come diverso (l’outgroup). Questo schema, se non viene riconosciuto e superato, si può facilmente trasformare in esclusione, stereotipo, disumanizzazione.
Accade soprattutto quando entriamo in contatto con la paura. La paura è il combustibile perfetto per la deumanizzazione: ci spinge a semplificare, a ridurre l’altro a una minaccia, a negare la sua complessità. Più l’altro ci appare “pericoloso” o “caotico”, più siamo portati a privarlo di qualità umane. Così, per proteggerci, iniziamo a non sentire più.
A questo si aggiunge un meccanismo più sottile, ma altrettanto potente: la dissociazione empatica. Di fronte alla sofferenza altrui, possiamo sentirci sopraffatti, impotenti, colpevoli. E allora, per non soffrire con l’altro, lo allontaniamo interiormente. Lo rendiamo meno umano per renderlo meno simile a noi. In questo modo ci difendiamo dal dolore… ma paghiamo un prezzo altissimo: la perdita di connessione.
Il linguaggio gioca qui un ruolo centrale. Le parole che usiamo per descrivere gli altri – orde, parassiti, invasione, nemici, subumani – non sono mai innocue. Il linguaggio plasma la realtà: toglie o restituisce dignità. Più un individuo o un gruppo viene raccontato attraverso categorie disumanizzanti, più sarà facile trattarlo in modo disumano. La storia, purtroppo, lo dimostra con chiarezza.
E infine c’è la cultura in cui siamo immersi. Una cultura che esalta la competizione, l’efficienza, l’individualismo, tende a ridurre l’essere umano a funzione. Chi non “produce”, chi non “serve”, chi è di peso, diventa invisibile, o peggio: un ostacolo. Così la deumanizzazione non nasce più solo nei regimi totalitari, ma può germogliare anche nei luoghi apparentemente civili. Nelle istituzioni, nei discorsi politici, nelle dinamiche digitali, nei gesti quotidiani.
La domanda che dovremmo porci non è tanto “chi deumanizza?”, ma piuttosto “quando lo facciamo?” E soprattutto: “ci rendiamo conto di farlo?”

Le conseguenze della deumanizzazione: cosa accade quando l’altro non è più umano

Quando l’altro smette di essere umano ai nostri occhi, non è più solo l’altro a essere in pericolo: anche noi perdiamo qualcosa. Qualcosa di essenziale, che ha a che fare con il nostro stesso essere umani.
La deumanizzazione non si limita a colpire chi ne è oggetto diretto. Non è una lama a senso unico. È un processo corrosivo che, mentre toglie umanità all’altro, la consuma anche in noi. Ogni volta che ci abituiamo alla sofferenza altrui, ogni volta che voltiamo lo sguardo, ogni volta che riduciamo una vita a un’etichetta, stiamo smussando qualcosa dentro di noi. L’empatia si ritira e al suo posto resta un vuoto che spesso chiamiamo "realismo", "distacco", "pragmatismo", ma che in realtà è solo una forma elegante di disconnessione.
Le conseguenze sono ovunque. Nella storia, la deumanizzazione ha preparato il terreno ai genocidi, ai campi di sterminio, alle pulizie etniche. Non ci si sveglia una mattina e si stermina un popolo: ci si arriva lentamente, un linguaggio alla volta, una semplificazione alla volta, una disumanizzazione alla volta. Prima vengono le parole, poi l’indifferenza, poi le azioni.
Ma anche fuori dai contesti estremi, la deumanizzazione lavora in silenzio. Nei sistemi sociali che lasciano morire chi non ha documenti. Nei commenti che deridono chi fugge dalle guerre. Nella burocrazia che trasforma esseri umani in pratiche da archiviare. Nelle aziende che vedono il lavoratore come risorsa da spremere. Nell’abitudine a vedere il dolore altrui come "inevitabile", "lontano", o addirittura "colpa loro".
E intanto, qualcosa si spezza nella possibilità stessa della comunità umana. Perché non può esserci giustizia senza riconoscimento, né cura senza la percezione che l’altro sente, respira, prova. Umanamente.
Ciò che rende la deumanizzazione così subdola è proprio la sua capacità di sembrare normale. Anzi, spesso si traveste da efficienza, da sicurezza, da ordine. Ma se guardiamo con attenzione, vediamo che sotto quella superficie ordinata si muove un lento ma costante svuotamento emotivo. E dove non c’è più spazio per la compassione, cresce il terreno fertile per ogni forma di violenza.
Non c’è bisogno di essere carnefici per partecipare a questo processo. Basta il silenzio. Basta l’indifferenza. Basta non fare domande.


Come contrastare la deumanizzazione: empatia, narrazione e consapevolezza

Non possiamo cambiare ciò che non vediamo. Ed è proprio qui che inizia il lavoro più difficile: riconoscere la deumanizzazione quando si manifesta. Anche – e soprattutto – quando prende forme sottili, mascherate da razionalità, da sicurezza, da “normalità”. Per contrastarla, dobbiamo prima sentirla, percepirla con quella parte di noi che ancora resiste alla disconnessione. È un lavoro di presenza, prima ancora che di azione.
Il primo antidoto è l’empatia. Ma non l’empatia facile, quella che funziona quando l’altro ci somiglia, parla la nostra lingua, condivide i nostri valori. Serve un’empatia più radicale, che sappia attraversare la distanza, il disaccordo, il disagio. Un’empatia che non è sentimentalismo, ma uno sforzo concreto di riconoscimento: tu esisti, sei reale, e la tua esperienza ha valore anche se non la comprendo del tutto.
Poi c’è il potere della narrazione. Raccontare le storie degli altri, ascoltarle, lasciarsi toccare. La deumanizzazione prospera dove ci sono masse indistinte, numeri, categorie. Ma vacilla di fronte al volto, al nome, alla storia concreta. Raccontare è un atto politico e spirituale insieme. Perché dove c’è una storia, c’è una persona. E dove c’è una persona, la violenza non può più essere impersonale.
Ma l’empatia e il racconto non bastano se non sono accompagnati da consapevolezza. Una consapevolezza scomoda, che ci obbliga a interrogarci: dove, dentro di me, inizia la disumanizzazione? In quali gesti, in quali pensieri, in quali linguaggi? Riconoscere il seme non significa colpevolizzarsi, ma decidere di non coltivarlo.
Contrastare la deumanizzazione non significa solo difendere chi ne è vittima, ma anche proteggere la possibilità stessa di una convivenza umana. In un tempo in cui la guerra viene nuovamente normalizzata, in cui la distanza è diventata abitudine, e la crudeltà uno spettacolo quotidiano, la scelta di restare umani – davvero umani – è un atto di resistenza.
E se oggi, qui, leggendo o scrivendo, anche solo per un attimo, sentiamo l’urgenza di questa scelta, allora forse non tutto è perduto.

Infine

"Non costruire la tua felicità sulla sofferenza degli altri."
In questa frase apparentemente semplice si racchiude tutta la sfida del nostro tempo. Viviamo immersi in una società che ci insegna a competere, a primeggiare, a mostrarci impeccabili. Una società narcisizzata, dove l’immagine di sé conta più della verità, e dove l’empatia rischia di diventare una debolezza, anziché una forza.
Ma è proprio qui che possiamo scegliere di deviare il corso. Possiamo decidere di coltivare l’empatia come l’unico vero valore, la sola ricchezza che ci rende pienamente umani. Possiamo smettere di misurare la nostra realizzazione in voti, prestazioni, denaro o status, e iniziare a chiederci quanto amore, quanta solidarietà, quanta compassione siamo stati capaci di offrire al mondo.
È tempo di abbandonare il culto del sé e tornare al noi. Un noi profondo, fondato sull’agape, sull’amore disinteressato per l’umanità. Sulla scelta di restare umani quando è più facile chiudersi. Di vedere l’altro, di sentire che ogni volto che incontriamo è un richiamo al nostro stesso volto.
Alla fine, davvero, non resterà altro di noi che ciò che abbiamo dato. E forse è proprio questo l’unico modo per sottrarci al buio della deumanizzazione: restituire all’essere umano, uno per uno, la sua importanza.


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